FIGLI SENZA PADRI
da “La Nuova” • venerdì 20 giugno 1997
Attori d’avanguardia ”nati” a Marghera
UNA nuova avventura teatrale che comincia merita sempre attenzione, specie in un momento in cui fare teatro senza avere alle spalle finanziamenti pubblici è quasi impossibile. Il nuovo gruppo, nato a Marghera, ma internazionale nella composizione e nella destinazione progettuale si chiama «Il cervo disertore» ed ha esordito ieri sera al teatro di Villa dei Leoni a Mira con «Figli senza padre», presentato in prima nazionale. A guidare il progetto di «Il cervo disertore» è Naira Gonzarez argentina, attrice per alcuni anni dell’Odin theatret di Eugenio Barba. Ed in questo progetto di suggestioni dell’Odin ce ne sono molte, a cominciare dalla voglia di internazionalità con l’intento di superare le tradizionali barriere linguistiche per gli attori. Nella compagnia ci sono infatti un attore argentino, Dario Levin, una spagnola, Cristina Prez Leal oltre agli italiani, Luigi Marangoni, Emiliano De Po, Massimiliano Donato, Antonil Shackelford, Donatella Sacco, Roberta Raineri, Michela Mocchiutti, Marilisa Capuano, Giulia Leonardi. Ed oltre a questo il vivere l’attorialità in profondità, in un coinvolgimento totale che fa paragonare a Naira Gonzalez il recitare «ad una preghiera, ad una rivoluzione». Dunque un intero anno di lavoro per attori provenienti da scuole molto diverse, chi dal Piccolo di Milano, chi dal Bottegone di Gassman, chi dall’Avogaria per impadronirsi delle tecniche dell’Odin e realizzare questo spettacolo «Padri senza figli» che è il vero punto di partenza per il gruppo. «E’ uno spettacolo sulla droga e sulla terra» spiega Naira Gonzalez, ovvero sulla ricerca della droga, ma anche sulla necessità di ritornare alla terra, alle radici, quelle radici che nello spettacolo sono rappresentate dalla presenza quasi ossessiva degli elementi primigeni della tradizione antica: il fuoco, la terra, l’acqua, l’aria. Una ricerca parallela condotta da tre giovani disperati, urlanti, rabbiosi che si imbattono in una figura, quella dell’ebreo che rappresenta tutto insieme il passato, il ricordo, la tradizione, il potere.
(n.m.i)
da “La Tribuna di Treviso” • 5 febbraio 1998
Ariston, domani « Figli senza padri». Se le generazioni non comunicano.
METTERE in scena l’incomunicabilità fra le generazioni. E in particolare quella tra padri e figli. E’ la scommessa del Cervo Disertore, la compagnia di Naira Gonzalez, che domani sera propone al teatro Ariston di via Garbizza «figli senza padre» (ore 21, ingresso 15-8 mila). Lo hanno scritto a quattro mani la stessa Naira e Donatella Sacco, dedicandolo ai loro padri e a Fraocesco, Ilaria, Antonella, Leonardo, Alessio, Nicola, Chiara. Tre giovani, senza punti di riferimento, cercado la droga per fuggire dalle radici, dal pragmatismo, dalla mancanza, dall’estraneità rispetto ai valori e alle scelte dei Padri. Tre ragazze sono prigioniere della memoria: tra loro aleggia il fantasma del padre che cercava la terra. Uomini in cerca di terra, giovani in cerca di droga: generazioni diverse, lontane, con in comune la sabbia, il deserto, la memoria che ritorna e che poi nuovamente vacilla.
Il linguaggio è evocativo, rigorosamente non didascalico. I flash portano in altre dimensioni, mentre predominano straniamento e linguaggio metaforico. La trama dell’opera muove da un funerale di un ragazzo morto per overdose: tre amici, dopo le esequie, si mettono subito a cercare la droga… Fra i temi dell’opera, la violenza «ereditata» dai giovani. Negli artefici della guerra i giovani non riconoscono nessun Padre. E le colpe, al contrario di quanto dice la massima, non ricadono sui figli: anzi, “Figli senza padri” sembra dire che si può vivere senza senso di colpa. E anche senza padre?
da “La Tribuna di Treviso” • martedì 17 febbraio 1998
Nessuno ha meritato il premio”Opera Prima”
La giuria, con questo spietato verdetto, sembra aver visto il nulla. Ma la differenza, nei lavori presentati, si è vista, eccome!
E non c’ è niente da capire” cantava De Gregori qualche anno fa. La quinta edizione del “Festiva Opera prima” è iniziata giovedì 18 giugno e si è conclusa domenica 21. La novità di quest’ anno è stata la presenza di una giuria col compito di assegnare il premio “Opera Prima” a uno dei sette gruppi teatrali selezionati per il Festival. Una seconda sezione di messinscene fuori concorso, chiamata “Il Mito e la Favola”, ha visto la partecipazione di alcuni gruppi storici del teatro di ricerca italiano. La giuria era così composta: Franco Quadri, Fabrizio Arcuri, Gerardo Guccini, Renata Molinari, Cristina Ventrucci. Noi scriviamo, fortunatamente, col senno di poi, a Festival finito, con l’anima in pace. In queste condizioni vi diciamo che il premio “Opera Prima” la giuria non ha ritenuto di conferirlo. “L’attuale stagione non ha evidentemente offerto opere prime che presentassero quella completezza e concordanza di elementi richiesta dalle attese e dal rigore che il Premio si propone. Pertanto la giuria non ritiene di potere conferire il Premio e suggerisce di suddividere la somma prevista fra i gruppi partecipanti”. Questa è l’ultima parte del verbale redatto e letto dalla giuria, domenica alle ore 12,00 nella sala d’Onore del Municipio. Il sindaco “povero” Fabio Baratella ha introdotto, con gaie parole sul giovane teatro italiano, la ghigliottina del giudizio dei quattro (più uno) cavalieri dell’apocalisse: non si è avuta neanche la cortesia di avvisare in anticipo il “Primo Cittadino”. Cosi ogni lavoro dei sette gruppi è stato preso a pedate nel sedere dai critici giurati, tutto si è risolto nella lettura di 17 righe di verbale… nemmeno sufficienti per riempire un foglio A4. Abbiamo l’impressione che nessuno dei giurati (dobbiamo generalizzare obbligatoriamente, in quanto il giudizio era dato all’unanimita’) si sia reso conto delle differenze tecniche e poetiche dei lavori presentati. Nessun vincitore ma tutti vinti, tutti perdenti, non è così! Possiamo assicurarvi che le differenze qualitative si sono fin troppo viste. La delusione è ancora presente, ma su tutto è presente la voglia di fare giustizia, di ricevere spiegazioni da Quadri (presidente della giuria) sul risultato ottenuto. C’è da chiedersi da quali forze il verdetto è stato spinto, se le decisioni sono state strettamente collegate all’evento teatrale o se hanno ricevuto un’importante influenza esterna. Non si vuole vedere tutto con occhi maliziosi, certo è che la giuria sembra avere visto li nulla. Allora, come Allora, come avrebbe fatto la montagna con Maometto (o viceversa ), conferiamo noi il premio ”Opera Prima” (naturalmente pagherà la giuria)… anzi stiliamo la nostra classifica dell’intero Festival, dal primo all’ultimo posto rendendoci conto dell’ impossibilità di classificare la poesia: Vincitore assoluto del Festival “Opera Prima” (tataaa): FIGLI SENZA PADRE della compagnia “Il Cervo Disertore” di Venezia. Motivazione: la messinscena proposta dalla suddetta compagnia ha saputo evidenziare una drammaturgia forte ed elegante, unita alle notevoli doti tecniche di ogni singolo attore. Entrambi gli elementi sono stati coordinati nel migliore dei modi, da una accurata regia. Bravi! alla faccia di chi se ne frega. Pasolini e una canzone dei Beatles ( Help, n.d.r.) siamo stati per un’ora seduti a guardare le stelle immobili nel ciclo, mentre le parole di Pasolini veniva no rapite e torturate dai tre attori bresciani, impacciatì nei movimenti e nella recitazione… al limite del ridicolo. Un commento a parte spetta al “Mito e la Favola”, misteriosa e criptica sezione di Opera Prima. Quattro gruppi di lavoro (Accademia degli Artefatti, Teatro del Lemming, Societas Rilffaello Salizio, Fanny & Alexander) hanno dato vita (e morte) un teatro di ricerca che continua a sbattere la testa sul muro dell’ incompren-sibilità. A dire il vero due solo dei quattro hanno sfiorato il brutto ermetismo di maniera, copia intellettualoide di una poesia (quella ermetica) che si è sviluppata come conseguenza/reazione ad alcuni fatti storici (il fascismo su tutti). I due impraticabili testi, Natura morta. Variazioni per una metamorfosi degli Artefatti e La felicità di tutti di Fanny & Alexander, contribuiscono ad allontanare il pubblico da un tipo di teatro che porta in sé, si dalla sua formazione, una poca popolarità. Sembra, che i due abbiano fatto di tutto per accattivarsi le antipatie del pubblico. A dar prova di questo allontanamento (voluto?) proponiamo qui due piccoli saggi di… niente: “Si parla di partecipazione e di collaborazione alla costruzione dell’identità del personaggio, perché l’impossibilità latente di un interpretazione razionale di ciò che accade è lo spazio che fa nascere il desiderio.” parola degli Artefatti. Secondo contribute alle parole vuote: “La felicità di tutti è la storia di una lunga preparazione alla morte, anzi alla tomba, intesa come luogo di estrema e non superabile mondanità. “Cari Fanny Alexander lavostra performance è stata una lunga preparazione alla noia, avremo preferitomorire.
MATTEO ZERBINATI
da “La Tribuna di Treviso” • martedì 17 febbraio 1998
E «Figli senza padre» non lascia indifferenti
Il pubblico si è alzato lentamente, dopo aver applaudito con energia. Tutti a complimentarsi con i protagonisti. Entusiasmo, qualche faccia all’uscita è ancora pensierosa: è stato fatto centro. «Figli senza padre», opera della compagnIa «Il Cervo Disertore», diretto dalla regista Naira Gonzales; scritto da Donatella Sacco, interpretato da Massimiliano Donato, Emiliano De Poi, Luigi Marangoni, Cristina Perez Leal, Antonia H. Shackeltord, è piaciuto. Ma lo spettacolo doveva soprattutto «entrare». Le tematiche non erano facili, dovevano essere delicati, ma allo stesso tempo non perdere la loro incisività, a tratti persino la loro durezza. Così è stato. La trama muove dal funerale di un ragazzo morto per overdose, e racconta. di tre giovani che non trova, no né punti di riferimento, né maestri. Con la droga cercano di fuggire, ma su di loro pesa l’estraneità rispetto ai valori dei padri. La mancanza di radici…serve gridare per farsi sentire, e per far sentire che la perdita di un amico può far cogliere il senso della vita; e quando Max il ribelle muore, Emi il poeta scopre la sua vocazione artistica e Luigi Il Folle ha il suo grande momento di lucidità. Così i «figli senza padri» si muovono sul palcoscenico sfiorando una tematica dopo l’altra. Non era facile rappresentare e comunicare la presa di coscienza che fra padri e figli c’è un distacco generazionale che degenera in incomunicabilità. Ma il gruppo c’e riuscito.
Giovanna Donini
da “Il Piccolo di Trieste” • martedì 14 luglio 1998
Figli della droga, senza padri
Dal conflitto generazionale alla memoria delle radici ebraiche
TRIESTE. È un po’ «straniero», nel calendario volutamente stuzzicante del «TsFestival,>, l’apparizione dello spettacolo di Naira Gonzalez e Donatella Sacco intitolato «Figli senza padre» (al posto del mancato «Making Porn» di Ronnie Larsen). Naira Gonzalez che capitana il gruppo del «Cervo disertore», proviene infatti dall’esperienza forte del teatro di Eugenio Barba e del più autorevole portavoce del suo linguaggio oggi in Italia, Cèsar Brie, fondatore del Teatro de los Andes. Su questa poetica si modella dunque il lavoro della regista, argentina di nascita, ma fedele all’internazionalismo dell’attore che governa la scuola di Barba. Tratto evidente anche in questo spettacolo – che per temperatura e sonorità, ricorda l’intensità di certi spettacoli molto amati dell’Odin Teatre, e si indirizza su una via drammaturgica più volte percorsa da Barba – il legame contraddittorio tra padri e figli, ma proiettato qui su molto attuali storie di droga. Dopo la morte per overdose di un loro compagno, tre amici si ritrovano ad affrontare lo spartiacque che li porterebbe fuori dalla dipendenza e dallo stordimento. Ma non è facile il viaggio verso la superficie della coscienza, tanto più se lo complica il conflitto delle generazioni e la memoria rifiutata della radice ebraica. L’ebraismo e la sua carica di ritualità tradizionale, sono temi che nello spettacolo si intrecciano a quello dell’affrancamento dai padri e dalla loro cultura, una rete. di pensieri che Naira Gonzalez e Donatella Sacco sviluppano per situazioni e per immagini dando valore simbolico ad alcuni oggetti (una ruota d’auto rappresenta la ruota di fuoco) o utilizzandone la forza suggestiva. E’ molto bello, ad esempio, l’uso che si fa della sabbia: è terra, e quindi radice e attaccamento, ma al tempo stesso è droga, e quindi fuga, dispersione. La presenza corporea è intensa (Barba parla di uno «stato» diverso per il corpo dell’attore mentre recita) come lo è anche la selezione dei gesti, mai realistica, mai banale. Anche se poi non si sfugge alle trappole dei luoghi comuni, come quando all’invocazione dell’overdose fa seguito la voce di Jim Morrison che nella più classica delle ballate generazionali e lisergiche «This is the end, my only friend, the end…». Ma è comunque un lavoro da apprezzare questo «Figli senza padre» tanto più se si pensa che il gruppo del «Cervo disertore» è nato da poco e opera senza alcun finanziamento, sorretto dalla volontà dei suoi interpreti che vanno citati anche per la sincerità e l’immediatezza che mostrano nel darsi ai personaggi: Massimiliano Donato (Max, il ribelle), Emiliano De Poi (Emi, il poeta dell’acqua), Luigi Marangoni (il folle) e come figlia dell’ebreo la stessa Naira Gonzelez.
Roberto Canziani
da “Il Resto del Carlino” • martedì 23 giugno 1998
Opera Prima: il premio a uno, nessuno, centomila…
Servizio di Alessandra Chini
Colpo di scena. La giuria del Premio Opera Prima, formata da Franco Quadri, presidente, Fabrizio Arcuri, Gerardo Guccini, Renata Molinari e Cristina Ventrucci ha deciso di non assegnare la vittoria a nessuna delle’ sette compagnie in concorso. Secondo la giuria, infatti, nonostante quasi tutti i lavori manifestino qualche caratteristica interessante, dalla recitazione all’idea registica o altro, nessuno possiede tutte le qualità di “completezza e concordanza di elementi richiesta dalle attese e dal rigore che il Premio si propone”, come recita il verbale. Una decisione clamorosa, che scontenta un po’ tutti. In primo luogo le compagnie che, avendo accettato di partecipare, si aspettavano, a buon diritto, di essere giudicate. Una decisione di questo tipo, invece, le appiattisce tutte allo stesso livello e non è certo un incentivo a migliorare, come qualcuno della giuria cerca invece di dare a intendere. Tutto questo, tra l’altro, con il contentino finale della suddivisione del premio tra tutti i partecipanti. Suggerimento, per altro, incongruente, dato che la giuria non ha motivato la sua decisione dicendo che tutte le compagnie erano parimenti a un buon livello. ma che nessuna, in realtà, meritava il premio. E comunque, appare chiaro come il pubblico, al contrario della giuria, il premio lo abbia decisamente assegnato, anche se chiaramente può, essere fuorviante basarsi solo su questo canone, che peraltro ha una sua importanza. Fatto sta che spettacoli come’ Jago’ della compagnia CLESSIDRA TEATRO, esoprattutto ‘Figli senza padri’ della veneziana ‘Il cervo disertore’ hanno ricevuto, a ragione, una vera ovazione. Se si considera, poi, il fatto che queste sette compagnie vengono da una selezione operata dal gruppo del Lemming fra, cento trenta proposte, questa scelta penalizza anche la compagnia rodigina. Infatti, nonostante la giuria sottolinei reiteratamente nel proprio verbale, l’innegabile importanza dello sforzo di questo gruppo per “…dissodare attraverso un lavoro di scavo e messa in relazione, le ragioni e i modi della pratica teatrale nel panorama delle nuove realtà”, in fondo finisce per mettere in discussione i criteri di scelta. Non una critica al Festival in sé, comunque, ma forse al fatto che, come ‘vetrina’, può funzionare un canone di selezione’ che valorizzi, ad esempio, la varietà dei lavori presentati, ma nel momento in cui si passa da questa formula a quella di ‘gara’ forse sarebbe necessario rivedere i criteri di scelta delle compagnie.
da “La Nuova” • martedì 17 giugno 1997
Ci salveranno i sogni
Un ebreo, i lager, il muro della droga
TRE giovani si ritrovano al funerale di un amico morto per overdose. Dopo la cerimonia si mettono a loro volta a cercare la droga, l’unico che sa dove trovarla è un ebreo. Prima di indicare dove i tre ragazzi possono cercarla, l’ebreo vuole raccontare la storia dei lager, ma i tre amici non vogliono ascoltarlo. Sempre nascosto ai loro sguardi, il pozzo del1a droga, sabbioso e candido, assomiglia al lager, un lager scelto da loro. I ragazzi conoscono le figlie dell’ ebreo, che vivono segregate in casa. Durante una crisi di astinenza i tre giovani irrompono. nella casa del1’ebreo, che li costringe ad ascoltare il suo racconto senza parole, attraverso i sogni. Sogni biblici. Come miraggi svelano la violenza che i giovani hanno ereditato. Attraverso i sogni si salvano. La libertà è accettare di non avere più nessuno, di riuscire a vivere senza padri: «Per dissotterrare la memoria mi devo spogliare della terra». Così la fuga porta alla costruzione di un altro muro dove si può pensare senza essere sentiti, recitare senza essere insultati, ma anche urlare, e forse qualcuno ci sentirà. Dei tre ragazzi, uno non regge alla storia e si uccide; un altro da folle diventa lucido; l’ultimo continua a vivere, per scrivere e testimoniare la storia. L’ebreo parte, lascia le figlie; i giovani si ritrovano, quelli vivi e quelli morti, per costruire un grande ideale, che forse un giorno come il fuoco si spegnerà.
E’ la trama, dì «Figli senza padre», lo spettacolo della compagni ll Cervo Disertore di Mestre in scena in prima nazionale giovedì 19 giugno alle 21.30 al teatro di villa dei Leoni di Mira, diretto dalla regista argentina Naira Gonzalez con Donatella Sacco. In scena Emiliano De PoI, Massimiliano Donato, Dario Levin, Luigi Marangoni, Michela Mocchiutti, Cristina Perez Leal. Esempio di teatro post-be ckettiano e post-grotowskiano, oltre l’avanguardia, lo spettacolo è tutto costruito sul corpo, la voce, il movimento. «Figli senza padre» è molto bello dal punto di vista visivo e coreografico. Evocativo, intenso: una mimica di spettri nello spazio del silenzio, al1a ricerca dell’emozione che ci fa ancora vivere. (r.l.)
da “Il Gazzettino” • domenica 14 giugno 1998
Overdose di sentimenti tra poesia, ribellione e follia
«La follia sarà la strada con cui mi racconterò» dice il pazzo interpretato da Luigi Marangoni, nello spettacolo “Figli senza padri” della compagnia teatrale “Il cervo disertore” andato in scena al liceo “Marco Polo”. Una storia che irrompe nel pubblico con la stessa violenza con cui si appropriano degli spazi della palestra della scuola, trasformata dalle loro parole nell’abisso in cui si aggirano senza pace i giovani incompresi, drogati. Sognatori senza speranze, giovani dimenticati. La Poesia, la Ribellione e la Follia, sono tre ragazzi che si ritrovano al funerale di un loro amico morto per overdose. Comincia un viaggio per trovare la droga, ma anche quei sogni «che pungono l’aria come fiamme del fuoco». Si imbattono in due sorelle ebree e presto la ricerca della droga si confonde con quella stessa brama per la terra che aveva il padre delle ragazze. «La terra e il potere portano alla distruzione, ma i Profeti non servono a niente se non riescono a impedire la morte». Vita e morte si confondono, libertà e schiavitù si intrecciano, terra e droga si mescolano, sui volti espressivi di questi attori. Un testo toccante di Donatella Sacco, con frasi brevi, profonde, ricercate, per evocare immagini che si fissano come piccole stilettate nelle menti di chi ascolta. Una regia fresca quella Naira Gonzales, che impregna di simboli il suo teatro fatto da giovani e sui giovani, ma per tutti. Emiliano De PoI, Massimiliano Donato, Cristina Perez Leal e Antonia Shackelford sono gli altri attori, professionisti, che riescono a riempire con le voci prorompenti e le smorfie dei loro visi la scenografia essenziale che li accompagna. Alla fine dello spettacolo, quando si capirà che senza padri in fondo si può vivere, il poeta trovera’ la sua vocazione, il folle la lucidità, il ribella si ucciderà. «Tutte le volte che vorrai vedermi chiudi gli occhi e allora sarò sempre io».
B.S.
da “Il Resto del Carlino” • martedì 23 giugno 1998
Tra padri e figli finisce in overdose
Servizio di Alessandra Chini
Un pubblico molto numeroso e a dir poco entusiasta ha accolto il ritorno a Rovigo del bravissimo Luigi Marangoni, ex attore del Teatro del Lemming, che con la sua nuova compagnia veneziana “Il cervo disertore” ha portato in scena sabato sera al ‘Teatro Verde al Castello’, nell’ambito dell’Opera Prima, ‘Figli senza padri’. Un quadrato di polvere bianca a delimitare il ‘sacro’ spazio dell’azione teatrale e un ampio telo nero come parete posteriore. E’ questa la scarna scenografia del coinvolgente spettacolo che vede come pro1agonisti tre ragazzi, simboli rispettivamente della Ribellione (Massimiliano Donato), della Poesia (Emiliano De Poi) e della Follia (Luigi Marangoni), accanto a loro altri due personaggisimbolo: le figlie dell’ ebreo, la Memoria (Antonia H. Shackelford) e l’Infanzia (Cristina Perez Leal). E poi, ancora altri simboli evocativi a costellare il procedere dell’ azione, la ruota di fuoco, ovvero il viaggio, un percorso lontano dalle radici paterne, ben piantate nella terra. E la terra come elemento importantissimo per il padre, specie se ebreo e dunque abituato, da sempre, a errare, essendone stato privato. Infine l’acqua, come elemento catartico, salvo poi sottolineare che: “Sotto l’acqua c’è una distesa di sabbia…” che altro non è che la famigerata terra. E di catarsi si può parlare anche riguardo alla morte per overdose del ragazzo ribelle, momento in cui il poeta trova l’ispirazione e il folle ha un attimo di lucidità nell’ affermare : “Ho visto mio padre abbracciare il feretro di mio fratello”. Bravissimi i cinque attori, e interessanti alcune scelte registiche riguardanti soprattutto le composizioni corporali e i movimenti in scena. A completare la serata di sabato, poi, la compagnia ‘3ATR02’ ha presentato, ‘I mieI colori amati’ basato su alcune raccolte di poesie di Pier Paolo Pasolini. Buona l’idea, ma non altrettanto il risultato. Lo spettacolo, infatti, formato unicamente da un collage di queste liriche ha finito per risultare estremamente pesante. La serata di domenica, l’ultima della rassegna, ha visto invece, portati in scena due spettacoli della sezione ‘Il Mito e la Favola’, ovvero, ‘Buchettino’ della famosa ‘Socìetas Raffaello Sanzio’ e ‘La felicità di tutti’ di ‘Fanny e Alexander’. ‘Buchettino’ è il nome di una favola, meglio nota come ‘Pollicino’ che racconta le vicende di un piccolissimo bimbetto e dei suoi sei fratelli abbandonati, secondo un classico topos, nel mezzo del bosco a causa della spaventosa indigenza dei genitori. Ma non è tanto la favola in sé a costituire l’elemento fondamentale del lavoro della’ Socìetas’ , quanto tutto il contorno. Gli spettatori, infatti, vengono fatti accomodare all’interno di una struttura di legno con cinquanta lettini appositamente preparati per loro e un attrice (Silvia Pasello) racconta la favola. All’esterno della struttura, intanto Carmen Castellucci e Flavio Urbinati si occupano dei rumori di sottofondo che rimbombano all’interno. E,’ completamente intento nell’ ascolto, if pubblico si trova assolutamente coinvolto e avvolto nella magica atmosfera della fiaba. E di una fiaba tratta anche ‘La felicità di tutti’, una fiaba strana, dal sentore cimiteriale e ossianico.
da “Il Gazzettino” • sabato 21 giugno 1997
Incomunicabilità tra generazioni
Il testo ”Figli senza padre”
Il teatro di “Villa dei Leoni” non ha fatto in tempo a chiudere i battenti per la sospirata pausa estiva che già ha dovuto riaprirli per uno spettacolo messo in scena dal gruppo “Il cervo disertore”. Un lavoro scritto a quattro mani da Naira Gonzales e Donatella Sacco (operanti entrambe in quel di Mestre), intitolato «Figli senza padre», sul tema dell’incomunicabilità generazionale. O meglio, fra padri e figli, in una società che non sa più cosa siano i valori. L’azione inizia forse in termini gesticolati più del necessario con tre amici affranti che si trovano ai funerali di un loro compagno d’avventure morto per overdose. E la droga cattura subito le loro fantasie inducendoli a cercarne qualche dose per ingannare l’angoscia. L’unico a conoscere il luogo dove trovarla è un ebreo, che prima di metterli sulla traccia della sostanza invocata, vorrebbe evocare la storia drammatica dei lager. Nei quali è sparito il meglio della società ebraica, solita a fare le sue scelte in obbedienza alla tradizione biblica. Il dialogo fra l’ebreo e i tre visitatori conosce una sorta di pausa all’irrompere delle sue figlie, che ricordano alla lontana due fiori spuntati in una terra arida, ma poi riprende sul filo del viaggio onirico. Ed è giusto facendo leva sulla lezione impartita dalla musica alquanto sui generis del sogno che gli amici riescono a trovare salvazione. Liberandosi dal mito di avere sempre alle spalle chi li protegge dalle onde burrascose dell’esistenza, cadenzata da violenze senza scampo. Per non dire di altre esperienze traumatiche che finiscono per spalancare la porta al dilagare, della solitudine contro la quale nemmeno più le parole valgono. Soltanto dopo aver buttato giù il muro che sta loro davanti, i giovani riescono a essere, finalmente se stessi, pur avendo il preciso sospetto che dalle proprie radici non ci si libera mai totalmente. Salvo che uno non riesca a costruire una nuova realtà, rappresentata, come avverte la breve nota distribuita al pubblico, dalla «costruzione di un altro muro dove si può pensare. senza essere sentiti, recitare senza essere insultati, ma anche urlare, e forse qualcuno ci sentirà». La conclusione della “quasi parabola” a firma Gonzales-Sacco, sulla scoperta che la conoscenza non salva, è che la combriccola di amici alquanto traumatizzati si rivolge di nuovo al soccorso della droga. Il risultato della scelta è che tornano alla famosa polvere bianca che ricorda la neve, finché dopo la partenza dell’ebreo scortato dalle figlie, non troveranno la forza di «costruire un grande ideale, che forse un giorno come il fuoco si spegnerà e assisteranno nuovamente al funerale dello stesso amico morto per overdose». Una volta spiegata sia pur succintamente la vicenda, c’è da aggiungere che NairaGonzaIes ha saputo metterla in scena con grande bravura, avvalendosi di un gruppo di attori molti affiatati, che meritano un caldo elogio: Emiliano de Poi, Massimiliano Donato, Dario Levin, Luigi Marangoni/ Michela Macchiutti e Cnstina Perez Leal. Il risultato della sua operazione, viziata forse da un sospetto di estetismo e da alcune ripetizioni, è stata una metafora inquietante! che ha avuto momenti di alta qualità.
G.A. Cibotto
da “Il Gazzettino di Rovigo” • martedì 23 giugno 1998
Nè retorica nè luoghi comuni
Sogno e realtà, volontà di perdere le proprie radici e necessità di una memoria: un viaggio fatto spesso anche di scelte contraddittorie, un continuo oscillare alla ricerca di un equilibrio che forse non ci è più dato avere. “Figli senza padre”, presentato sabato sera dalla compagnia “Il cervo disertore” di Venezia, nell’ambito del Festival “Opera Prima” (nella sezione-concorso), ha affrontato il tema della comunicazione fra generazioni, evitando retorica e luoghi comuni e riuscendo a produrre un forte impatto sul pubblico presente al Teatro Verde al Castello. Due figlie (Cristina Perez Leal, Antonia H.Shàckelford) custodiscono la memoria del padre ebreo, che per tutta la vita ha cercato la terra promessa; il figlio (MasSlmiliano Donato, la ribellione) invece ha rinnegato le proprie origini, rifiutando di riconoscersi in chi da vittima (lo stato di Israele, i Padri) è diventato portatore di guerra; i due suoi amici (Luigi Marangoni, pazzia, e Emiliano De PoI, poesia), lo seguono nella disperata rincorsa di una libertà assoluta, che porta anche attraverso le strade della droga. Lo spettacolo (regia di Naira Gonzalez) ha offerto momenti davvero intensi, utilizzando una sapiente commistione di parole e immagini, un linguaggio evocativo, e figure di teatro-danza. Acrobatica, accesa, a tratti violenta, la recitazione; suggestivo il testo, denso di intuizioni penetranti. Alla fine il pubblico, molto più numeroso del solito (complice forse la presenza del rodigino Marangoni), ha salutato con un lunghissimo applauso la performance di un gruppo di attori straordinariamente affiatato e preparato, protagonista di uno degli spettacoli migliori di questo Festival.
Marcello Garbato
da “La Provincia di Cremona” • venerdì 17 luglio 1998 Storie di Generazione X
‘Figli senza padri’, droga e rabbia per tre ragazzi
POZZAGLIO – Fare teatro non tanto per fare quanto per provare e provarsi alle nuove forme della scena. La partenza scenica della rassegna estiva di Pozzaglio è coraggiosamente tutta in salita. Ha
ìl sapore del rischio e della forza di non legarsi a forme abusate dello spettacolo dal vivo. Tutto questo per dire che Figli senza padri (domani sera ore 21 al Centro sportivo) della giovane compagnia veneziana ‘II cervo disertore’ è uno spettacolo da non perdere. Le motivazioni che rendono interessante l’allestimento sono molteplici: il tentativo di leggere la realtà, la voglia di fare della giovane regista Naira Gonzales, boliviana di nascita e con alle spalle una collaborazione con Eugenio Barba, il cast multietnico della compagnia, ma soprattutto il desiderio di affrontare di petto la realtà e il disagio della società contemporanea. Figli senza padri è la storia di tre giovani che si ritrovano al funerale di un amico morto per overdose. Dopo la cerimonia si mettono a loro volta alla ricerca di droga, l’unico che sa dove trovarla è un ebreo. L’incontro con chi sa procurar loro la ‘roba’ non è immediato: l’ebreo vuole raccontare ai tre tossici la sua storia, fatta di sogni biblici. Quell’incontro affidato al corpo e ai suoni, più che alle parola, procurerà una strana e inaspettata catarsi, recupererà alla generazioni senza padri le origini di una violenza a cui sono inconsapevolmente vittime. ma al tempo stesso li renderà liberi. Quei sogni che sanno di miraggi aiuteranno a vivere i tre, li renderanno consapevoli che è possibile esistere malgrado l’assenza di maestri, di padri. Figli senza padri proporrà una tipologia di teatro che, mutuata dalla lezione antropologica di Barba, affida al corpo, al movimento ai suoni della voce le potenzialità espressive di un racconto che finisce con lo sconfinare nel rito. Per apprezzare la proposta inaugurale dell’estate In Scena di Pozzaglio bisogna dimenticarsi in parte, gli schemi classici della tradizione scenica all’italiana e farsi ‘disponibili’. Lo spettacolo di domani sera è il primo di un trittico, affidato alla Gonzales e ai suoi attori. Le tematiche affrontate sono quelle di un disagio o una rabbia sociale che trova sfogo proprio nello spazio libero e separato del teatro. Dopo Figli senza padri, i prossimi appuntamenti sono sabato 25 luglio con Il flore dell’Orgia e il l’agosto con Rituale Fasullo. (N. arr.j)
da “Il Mattino” • venerdì 20 giugno 1997
Giovani, con rabbia ma in cerca di radici
L’esordio di una compagnia internazionale
UNA NUOVA avventura teatrale che comincia merita sempre attenzione, specie in un momento in cui fare teatro senza avere alle spalle finanziamenti pubblici è quasi impossibile. Il nuovo gruppo, nato a Marghera, ma internazionale nella composizione e nella destinazione progettuale si chiama «Il cervo disertore» ed ha esordito ieri sera al teatro di Villa dei Leoni a Mira con «Figli senza padri», presentato in prima nazionale. A guidare il progetto di «Il cervo disertore» è Naira Gonzales, argentina, attrice per alcuni anni dell’Odin Teatret di Eugenio Barba, con cui ha fatto tournée anche in Italia. Ed in questo progetto di suggestioni dell’Odin ce ne sono molte, a cominciare dalla voglia di internazionalità con l’intento di superare le tradizionali barriere linguistiche per gli attori. Nella compagnia ci sono infatti un attore argentino, Dario Levin, una spagnola, Cristina Prez Leal, oltre agli italiani, Luigi Marangoni, Emiliano De Po, Massimiliano Donato, Antonia Shackelford, Donatella Sacco, Roberta Raineri, Michela Mocchiutti, Marilisa Capuano, Giulia Leonardi. Ed oltre a questo, il vivere l’ attorialità in profondità, in un coinvolgimento totale che fa paragonare a Naira Gonzales il recitare «ad una preghiera, ad una rivoluzione». Dunque un intero anno di lavoro per attori provenienti da scuole molto diverse, chi dal Piccolo di Milano, chi dal Bottegone di Gassman, chi dall’ Avogaria per impadronirsi delle tecniche di recitazione dell’Odin e per realizzare questo spettacolo «Padri senza figli» che è il vero punto di partenza per il gruppo. «E’ uno spettacolo sulla droga e sulla terra» spiega Naira Gonzales, ovvero sulla ricerca della droga, ma anche sulla necessità di ritornare alla terra, alle radici, quelle radici che nello spettacolo sono rappresentate dalla presenza quasi ossessiva degli elementi primigeni della tradizione antica: il fuoco, la terra, l’acqua, l’aria. E questa ricerca parallela è condotta da tre giovani disperati, urlanti, rabbiosi che si imbattono in una figura, quella dell’ebreo, che rappresenta tutto insieme la paternità, il passato, il ricordo, la tradizione, il potere. II lavoro teatrale nasce dunque da questo incontro-scontro: da questo, aver bisogno dei padri e insieme rinnegarli, rivoltarsi contro, ripudiarli per conquistare alla fine se stessi, liberarsi delle colpe degli adulti che ricadono sui giovani. Quello di Naira Gonzales è un raccontare sincretico, fatto di suggestioni ed energie piu’ che di linearità narrativa, tutto incentrato sulla potenzialità espressiva del corpo ed in questo senso è indubbiamente efficace. Meno convincente è invece l’uso della parola; che volendo sfuggire ad ogni dimensione del teatro naturalistico non sembra però trovare una compiuta collocazione. Ma è comunque un esordio all’insegna del rigore, della grande passione per un teatro non superficiale ne’ approssimativo, che evidenzia tra l’altro interessanti individualità, ed è quindi da seguire con interesse.
Nicolò Menniti-Ippolito
da “il Resto del Carlino” • martedì 23 giugno 1998
Opera prima e’ legittimata
L’iniziativa ambisce ora a diventare ricerca. «Figli senza padri» testo migliore
Articolo di Sergio Garbato
E’ piuttosto lungo l’elenco degli enti e delle associazioni che hanno patrocinato e sostenuto economicamente la quinta edizione del festival “Opera Prima”, intitolato a Martino Ferrari e organizzato dal rodigino Teatro del Lemming: la Regione Veneto, la Provincia e il Comune di Rovigo, la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, l’ApI, il circuito teatrale regionale Arteven e i fogli locali Viavai e la Rotonda, mentre le Ferrovie dello Stato, non abbiamo capito bene perché, figurano su11a copertina del programma della manifestazione, ma non nelle pagine interne. Si tratta, dunque, di una iniziativa che non soltanto si è consolidata in cinque anni di vita, ma che viene ulteriormente legittimata da un fitto ed eterogeneo concorso di sponsor e fautori. E’ proprio questa paradossale istituzionalità la novità della odierna rassegna: un teatro “negato” e soffocato dall’ ufficialità e dalla tradizione, che non soltanto vuole rompere il muro di silenzio che gli e stato creato intorno, ma ambisce a diventare “ricerca” garantita e protetta proprio da quella alterità borghese che lo irrideva o lo ignorava. Nella rivolta dei figli contro i padri, sempre questi ultimi vogliono sostituirsi ai primi. Era perciò lecito nutrire non modeste aspettative riguardo a questa edizione, che ha aggiornato la sua formula e ha presentato un programma particolarmente denso di appuntamenti e occasioni, che coinvolgevano alcuni luoghi deputati e istituzionali della città, dal Teatro Sociale al salone del Municipio, dai giardini alla piazza e al cortile dell’ex Vescovado, dal Monastero degli Eremitani alla Pescheria Nuova. Articolati in due sezioni, sette spettacoli concorrevano al premio opera prima e altri quattro ridefinivano “Il Mito e la Favola”, puntando specialmente sul coinvolgimento sensoriale dello spettatore. Festival come vetrina vivente di formazioni teatrali che rivendicano il nuovissimo e contestano il silenzio, ma anche come legittimazione istituzionale: un grido, insomma, per farci sentire che, sì, esistono, operano e riempiono prepotentemente una presunta “tabula rasa”, ma, al tempo stesso, sono in attesa di una ratifica che comporta il rischio dell’omologazione. Ecco, allora, una giuria autorevole, presieduta da Franco Quadri e composta da Gerardo Guccini, Renata Molinari, Cristina Ventrucci e Fabrizio Arcuri per assegnare un premio consistente in due milioni di lire e nella partecipazione all’imminente Festival internazionale di Polverigi. Nella assiduità un poco disperante e ripetitiva delle proposte ci siamo attardati su tre spettacoli, che ci sono parsi in vario modo significativi anche se non sempre risolti. “L’attenzione alla morte non è frutto di una speranza di vita, ha scritto una volta Michel Vovelle, ma di felicità, ciò che è assai più complesso, ma anche più carico di significato” e pareva questo, o qualcosa di simile, il percorso che si erano assegnati gli otto attori del Teatro Magro di Mantova con “Eternit’. Solo che, come già suggeriva la irridente ambiguita’ del titolo, il rapporto uomo-morte diventava pretesto per una ironica ricognizione nei luoghi comuni dell’immaginario quotidiano, tra brandelli di vita, figurazioni, luci inquietanti, spaesamenti, poesiole a rima baciata, per smascherare l’inautenticità dei nostri giorni. La morte finiva, però, per essere esorcizzata dalla ripetizione dei giochi verbali e da certa inconsistenza drammatica. Roberto Latini e La Clessidra Teatro di Roma hanno invece presentato una dissezione dell’Otello shalcespeariano, trapiantando nel cuore dell’ azione nientemeno che Iago, assimilato a un ragno che tesse la sua tela. Un’ operazione che ormai più di venti anni fa aveva sollecitato anche Giorgio Manganelli, che aveva ribaltato le consolidate. strutture della tragedia. Cosi’ Iago monòloga senza interruzione, evocando e ricostrue do l’azione, nello scintillio della la voce e nelle inesauste deambulazioni, nei sapienti avvolgimenti della tela che restituiscono la verità di un lucido delirio. Qui, la ricerca non è sul linguaggio, ma sul rapporto tra personaggio e interprete un travolgente e mutuo scambio di intenzioni e battute. “Figli senza padre”, proposto dal veneziano II Cervo Disertore infine, ci è parso lavoro interessante e coerente, non proprio per le tematiche un poco abusate già adombrate nel titolo e in tanto cinema e letteratura che si rifanno agli anni Settanta, quanto piuttosto per la ricerca di un linguaggio efficace e di indubbia suggestione che si riallaccia alle esperienze dell’Odin Teatret di Eugenio Barba. Ecco la recitazione eterogenea (connotata da forte realismo nei personaggi maschili e da gusto evocativo in quelli femminili), nei movimenti alternati e improvvisi che animano lo spazio scenico, nei costumi e nell’uso delle luci. Non si è trattato pero’ di epigonismo, quanto di un autentico tentativo di superare, attraverso nuove figurazioni e fortissima intensità, punti di partenza prefissati e orizzonti appena e solo individuati. Fosse stato per noi, avremmo assegnato il premio proprio a questo lavoro. La giuria autorevole, invece, con un “escamotage”, non ha assegnato il premio “Opera Prima’ evitando, appunto, di avallare quella ricerca di istituzionalita’ che resta appannaggio soltanto delle compagnia promotrice, la quale daI canto suo, proprio per questo motivo, dovra’ pur rendere noti bilanci, promozioni e linee programmatiche e operative.